Alessandro Milan (giornalista e conduttore radiofonico)    Milano 20.4.2024

                                    Intervista di Gianfranco Gramola

“Non so quante persone nella vita possono dire “Io faccio quello che sognavo di fare da piccolo”. Io ho questa fortuna e quindi la mia ambizione è quella di continuare a fare questo lavoro perché mi diverto”

Alessandro Maria Milan è nato a Sesto San Giovanni il 5 dicembre 1970. Laureato in Scienze politiche all'Università degli Studi di Milano, Alessandro Milan lavora a Radio 24 dal 1999, primo anno di trasmissioni dell'emittente. Ha condotto per tre anni Linea 24 e in seguito Reporter 24, programma di approfondimento e d'inchiesta. Dal settembre 2007 al gennaio 2009 ha condotto la trasmissione Viva Voce. Dal 2010 conduce 24 Mattino, quotidiano di attualità, politica, cronaca ed economia. Dal settembre 2013 al giugno 2014 conduce la trasmissione televisiva Funamboli, su 7 Gold. Durante l'estate 2014 conduce Platone - La caverna dell'informazione, insieme a Leonardo Manera, Luca Klobas e Danilo Vizzini. La trasmissione viene riproposta nei teatri negli anni successivi. Dalla stagione 2017-2018 lascia la conduzione di 24 Mattino (passata a Luca Telese) per condurre Funamboli insieme a Veronica Gentili e al comico Leonardo Manera. Dal 2018 conduce la trasmissione Uno, nessuno, cento Milan con Leonardo Manera su Radio 24.

Libri

Mi vivi dentro, Milano, DeA Planeta Libri, 2018.

Due milioni di baci, Milano, DeA Planeta Libri, 2019.

Un giorno lo dirò al mondo, Milano, Mondadori, 2021.

I giorni della libertà, Milano, Mondadori, 2023.

Intervista

Mi racconti com’è nata la passione per il giornalismo e la scelta di lavorare in radio?

Io ho avuto la fortuna di fare il lavoro che volevo fare da piccolo, il giornalista e di farlo in radio è sempre stata la mia passione. Io quando avevo 12 anni guardavo le partite del Milan a casa e nella mente facevo la radio cronaca e fare questo mi appassionava e mi veniva bene. Poi le ho anche fatte nelle radio locali, quindi da sempre volevo fare il giornalista. In realtà a 15/16 anni leggevo sempre il Corriere della Sera, il giornale che il mio papà portava a casa e leggevo anche gli autori, gli articoli, i giornalisti, le firme. Il giornalismo e la radio sono sempre state le passioni della mi vita.

Con quali conduttori radiofonici di riferimento sei cresciuto?

Siccome ascoltavo Radio Italia quando ero ragazzo ho sempre visto con ammirazione  Augusto Abbondanza, che era appunto un giornalista di Radio Italia e quando è nata la Tv e la radio, lui andava in onda in Tv leggendo le notizie radiofoniche, ma senza farsi vedere, cioè andava in onda come un ombra. Un modo originale di parlare e di raccontare le notizie e per me è sempre stato un mito perché interpretava la radio in maniera pura, cioè quella che non si vede. Però in realtà non avevo grandi miti come persone, erano più le radio locali e le piccole radio e io ascoltavo queste radio quando facevano i quiz, le telefonate a magari vincevi un adesivo. Io avevo un quadernetto dove segnavo tutti gli orari di tutte le radio e di tutti i quiz, ovviamente della radio della Lombardia e cercavo di partecipare telefonando e se prendevo la linea ero direttamente in onda, cioè ti rispondeva direttamente lo speaker.

Per lavorare in radio si frequentano dei corsi o si impara sul campo?

Ai miei tempi c’era la famosa gavetta, c’erano delle piccole radio e quando io ho iniziato c’era radio Village, che non esiste più, poi sono andato a radio Number One che invece c’è ancora, poi CNR radio FM che si faceva nei giornali locali. Adesso è tutto molto più strutturato, io parlo di fare giornalismo in radio perché fare lo speaker con tutto il rispetto, è un altro lavoro. Io sono un giornalista, quindi il mio percorso è quello classico del giornalista, quindi esame di stato e poi mi sono specializzato in radio. E’ chiaro che fare radio non è così semplice come sembra, perché molti pensano che vai lì, accendi il microfono e parli. In realtà è una professione che si impara. Io poi ho avuto anche un grande maestro a Radio 24 che era Giancarlo Santalmassi, che ha lavorato tantissimi anni in Rai e poi è venuto a Radio 24. Io ho lavorato con lui e lui mi diceva: “Tu basta che guardi me e impari” e infatti è stato così.

Alessandro Milan con il comico Leonardo Manera

Come hai conosciuto Leonardo Manera e com’è nata l’idea di affiancarlo a te nel tuo programma?

In realtà è lui che mi ha contattato, mi ha scritto su Messenger di Facebook dicendo: “Io ascolto sempre la tua rassegna stampa su radio 24. Mi piacerebbe fare una specie di prova – spettacolo tra la comicità e l’informazione”. Ho pensato: “Che bello, buttiamoci”. Mi ha dato un appuntamento ad una serata nel locale Zelig di Milano e ci siamo accordati per fare una prova il 10 di giugno. Si avvicinava la data, io ero emozionato e incuriosito, ma lui non si faceva vivo, allora gli ho scritto chiedendogli se aveva cambiato idea. Lui mi ha risposto: “No, presentati il 10 giugno alle ore 20.00 allo Zelig. Trova delle notizie e poi facciamo la notizia stampa e seguimi”. E’ nata così un’amicizia e poi da cosa nasce cosa, ci siamo trovati bene e io poi l’ho coinvolto portandolo a Radio 24.

Ci sono dei temi che vorresti approfondire maggiormente in radio?

Io approfondisco sempre i temi di attualità. Secondo me c’è sempre il pensiero che uno deve mantenere che è quello che interessa a te personalmente e quello che pensi che possa interessare al pubblico. Io parlerei spesso della pena di morte, dei diritti umani, delle violenze sulle donne, dopo di che bisogna parlare ogni giorno di varie notizie date anche un po’ dalle prime pagine dei giornali. Io ho scritto anche un libro sulla pena di morte perché conobbi un condannato a morte in America, però capisco che magari è un tema caro a me, ma magari non arriverebbe a tante persone.

Quali sono le tue ambizioni?

Io faccio esattamente quello che volevo fare e che è sempre stato un mio grande sogno. Non so quante persone nella vita possono dire “Io faccio quello che sognavo di fare da piccolo”. Io ho questa fortuna e quindi la mia ambizione è quella di continuare a fare questo lavoro perché mi diverto. Ho anche scritto quattro libri che è una cosa che non pensavo di fare. Non è che vivo di sogni, ma sono felice così e professionalmente sono molto soddisfatto.

Parliamo dei tuoi libri. Il primo è stato “Mi vivi dentro”, che è dedicato a tua moglie Francesca, scomparsa per un cancro nel 2016. Scrivere questo libro è stata un’urgenza personale, un’esigenza, uno sfogo? E qual è il messaggio che vuoi trasmettere?

E’ una cosa singolare perché inizialmente quando mi è stato proposti dalla mia agente letteraria, che era anche l’agente letteraria di mia moglie, io le risposi che non scriverei mai una riga di me e di Francesca. Invece dopo un anno è uscito appunto “Mi vivi dentro” ed evidentemente è stata un’esigenza, perché qualcosa deve essere successa, cioè sentivo il bisogno di sfogarmi e anche di buttare fuori tutto il veleno che questa pagine della vita mi ha dato. Allora magari uno lo butta fuori e cerca di allontanarsene un po’ e quindi l’esigenza anche di prenderne le distanze ed esternare questo dolore, c’è stata. Il messaggio più che mio è quello di Francesca che ha vissuto gli anni della malattia senza togliere un secondo a tutta la vita possibile perché è sempre stata positiva ed era un vulcano di idee, quindi libri, progetti e viaggi all’estero. Quindi il messaggio era questo, cioè la positività nel vivere ogni singolo giorno.

Secondo libro “Due milioni di baci”. E’ un libro di speranza, di rinascita?

Questo è un po’ il sequel del primo libro. Nel primo libro ho raccontato in realtà la storia d’amore con mia moglie e quindi tante cose belle, però innegabilmente anche con un finale estremamente doloroso. Questo secondo libro è un po’ il cercare di dire che non bisogna farsi distruggere dalle avversità, siamo comunque io e i miei due figli una famiglia e si può, anzi si deve andare avanti.

Il terzo libro ha per titolo “Un giorno lo dirò al mondo”. Qual è il tema sviluppato in questo libro?

Quella è la storia del mio incontro radiofonico di Radio 24 con questo condannato a morte, il ventiseienne Derek Rocco Barnabei, che dopo è stato giustiziato in Virginia. Il libro è nato da una mia prima intervista e un rapporto anche personale fatto di lettere e di interviste. Gli ultimi nove mesi della sua vita io ero su Radio 24 tutti i giorni a parlare di lui e della pena di morte anche con gli ascoltatori e poi il giorno dell’esecuzione, la radio mi ha mandato in Virginia per raccontare l’ultimo giorno di Derek Rocco Barnabei. Il titolo del libro in  realtà è la frase che mi ha detto lui, cioè “Un giorno diremo al mondo che la pena di morte un tempo c’era e adesso non c’è più”. Siamo un po’ lontani da questo momento, però è il racconto giornalistico ed emotivo di questa storia vera.

Il tuo ultimo libro è “I giorni della libertà”. E’ un romanzo o un libro storico?

Un libro storico no, perché non sono uno storico e non mi permetterei mai. Sono storie vere di persone normali, sono tre donne e tre uomini, un operario, suo figlio, una portinaia, sua figlia, un dipendente del Corriere della Sera e sua moglie. Tutte persone esistite, vere, protagonisti di fatti veri, persone che vivevano nel mio quartiere a Milano, vicino a piazzale Loreto, che durante la seconda guerra mondiale hanno lottato per la libertà. Hanno lottato contro il fascismo e contro l’occupazione nazista e quindi sono storie vere di persone comuni e non persone che stanno sui libri di storia, ma che nel loro piccolo hanno fatto anche loro un pezzetto di storia diciamo. Ci hanno consegnato la libertà.

Di cosa parlerà il tuo prossimo libro?

A questa domanda non ti so rispondere perché al momento non ho libri in mente. Per me scrivere non deve essere un obbligo, perché non vivo di libri come tantissimi in Italia, sono pochi gli scrittori che vivono di questo. Il mio lavoro è il giornalismo e non ho progetti. Se poi succedesse qualcosa, ben venga. Pensa Gianfranco che il libro “I giorni della libertà” è nato durante una passeggiata vicino a casa mia, quando sono incocciato in una pietra che ricordava appunto un deportato in Germania e un giorno casualmente mi è nata questa idea.