Leo Gullotta (attore)     Roma 23.1.2005

                  Intervista di Gianfranco Gramola    

Per lui recitare è un Carnevale   

 

Il suo sito ufficiale è www.leogullotta.it 

Leopoldo (questo il suo vero nome) Gullotta è nato a Catania il 9 gennaio 1946. Figlio di Carmelo, pasticcere e di Carmela, casalinga, è un grande interprete drammatico, esilarante maschera comica e cabarettistica. L'attore siciliano si trova a proprio agio in entrambi i ruoli. Scopre la vocazione per il teatro, assistendo ad uno spettacolo di Vittorio Gassman. Muove i primi passi artistici il Teatro Stabile di Catania con maestri della recitazione quali Salvo Randone e Turi Ferro. Approda quindi a Roma dove diventa protagonista sin dagli anni '70 del cabaret e del varietà televisivo italiano. Tra le sue imitazioni e macchiette, famosa quella della signora Leonida. Ricordiamo le partecipazioni a “Biberon” (1987), “Crème Caramel” (1991) e “Saluti e baci” (1993) con Pippo Franco, Oreste Lionello e Martufello. Lavora anche in alcune fiction di successo come “Le ragazze di piazza di Spagna” (1997) e “Onora il padre (2001). Sul grande schermo, contemporaneamente ad interpretazioni in alcune pellicole commerciali, proficua la collaborazione con il regista Nanny Loy. Cominciata con “Caffè Espresso” (1980) e proseguita con “Mi manda Picone” (1984) e “Scugnizzi” (1989). Poi un altro importante incontro: quello con il regista corregionale Giuseppe Tornatore con il quale completa il bagaglio artistico. Dapprima con “Il camorrista” (1985) poi con gli applauditi “Nuovo cinema Paradiso” (1988) e “L’uomo delle stelle” (1995). Commuove, emoziona e si afferma in ruoli drammatici come ne “La scorta” (1993), in “Palla di neve” (1995), “Bruno aspetta in macchina” (1996), “Il carniere” (1997) e “Un uomo perbene” (1999). Sino a “Vajont” ed alla fiction tv “Cuore” (2001). E in questi ultimi due lavori, presenta al pubblico un'immagine diversa, non solo quella comica e caricaturista della televisione e del cabaret, ma anche quella straordinariamente umana del cinema.

Ha detto:

- Il dolore è stato il grande maestro della mia vita, quello che mi ha fatto maturare più in fretta, perché insegna ad essere più umili e disponibili verso il prossimo.

- Da bambino se ero cattivo. Non crocefiggevo le lucertole, non mettevo le farfalle nel forno. Il massimo era fare la pipì sui pomodori dell’orto del vicino: non ferocia, ma goduria.

- Oggi le vacanze si possono pagare con le cambiali. Se non si parte per la Sardegna e si preferisce Frosinone o un soggiorno sul lago, sei considerato un pezzente.

- Quando lavoravo nel film “Cuore”, nei panni del burbero Preside della scuola, i bambini che recitavano mi identificavano con il mio personaggio severo e austero. Ho conquistato la loro fiducia un po’ alla volta e alla fine mi hanno regalato disegni e letterine in segno di affetto.

- Il mestiere di attore, ti permette di volare, di giocare e di prendere ogni giorno come se fosse carnevale.

Curiosità

- Ha tre sorelle (Mariù, Graziella e Tina, deceduta a 27 anni per embolia) e due fratelli (Gianni e Tino).

- E’ un ex insegnante di disegno e di storia dell’arte.

- Ha scritto il libro “Mille fili d’erba – ovvero, come vivere felici anche su questa terra”.

- Lui stesso ama definirsi “operaio dello spettacolo”.

- Ha adottato due bambini che vivono in un villaggio  del Kenia.

Intervista

E’ nella sua bella casa a due passi dalla basilica di San Giovanni. Un piccolo aneddoto… L’ho contattato grazie a Oreste Lionello che gli ha detto che volevo intervistarlo e, per scherzo gli ha detto che sono un prete. Leo per tutta l’intervista mi ha chiamato “padre” e “dica padre”.

Quando ti sei stabilito a Roma e come ricordi l’impatto?

Io sono a Roma da circa 33 anni. L’impatto è stato positivo, nel suo tanto bene e nel suo poco male, per quanto mi riguarda. Allora venivo dalla provincia, da Catania dove ero formato all’interno del Teatro Stabile di Catania, dove ero cresciuto accanto a Turri Ferro e Salvo Randone e a Sciascia e Giuseppe Fava. Tutta una serie di grandi uomini del Teatro, quindi con una conformazione professionale molto alta. Ho deciso di cambiare nel senso che questo mestiere viene fatto guardando il mondo e non si può stare fermi. Una volta assunta questa posizione professionale, questo avviamento importante sono passato a Roma. Nella capitale stavo in una pensioncina e avevo come punto di riferimento un ristorante che stava lì di fronte, che era il luogo dove andavo a mangiare, ma anche il luogo che usavo come una specie di segreteria telefonica, di ufficio. Avevo stabilito un rapporto veramente umano, molto bello con il proprietario. Era al centro di Roma, in via Panisperna. Con Roma ho avuto un impatto molto fruttuoso dal punto di vista umano, sempre puntato verso queste note, appunto sull’umanità. Un reciproco approccio basato sul sorriso, sul rispetto, sulla dignità e con il tempo crescevo, scoprendo altri lati del mio lavoro. Fino a quando non ho avuto questo punto di partenza cioè di cambiare una fetta del mio lavoro nel così detto teatro leggero e ho cominciato con il cabaret. Ho cominciato il cabaret con il Puff, di Lando Fiorini, che era per me il punto di partenza, un luogo molto amico, perché il Puff diciamo viene portato avanti da ormai 36 anni, da quest’uomo che è Lando Fiorini, cantante romano di cuore, trasteverino autentico. In quell’occasione, Trastevere, mi volle subito bene, tant’è vero che rimasi per due stagioni all’interno di questo cabaret storico. Io fino a quel momento avevo fatto la prosa e come tutti gli attori di prosa un pò seriosi, mi sono scoperto delle zone, delle qualità che non conoscevo di me, dal punto di vista professionale. Mi sono scoperto la comicità una faccia cambiabile (risatina) un gran successo. E poi è venuto tutto il resto, oltre al teatro, il cinema, il doppiaggio e trasmissioni radiofoniche. Ho lavorato anche con Delia Scala e ho fatto il cinema anche quello commerciale. Però tutto questo sempre con una mia cucitura principale che era il rapporto umano con queste persone. Infatti in questi 33 anni dovunque sono andato a lavorare, a rapportarmi, ho sempre basato i miei rapporti sul sorriso e sulla gioiosità e sulle curiosità innanzi a tutto. Guai ad essere fermi e a cucirsi addosso note blande o ad erigere piedistalli. Questo è il lavoro più bello del mondo, il mio, si sceglie, l’ho scelto, ho avuto la  possibilità di farlo, ho avuto la possibilità di avere un’impostazione molto importante ma anche un’impostazione in quegli anni dell’adolescenza, perché si è più spugne,  e l’esser accompagnato, attorniato come punto di riferimento con degli uomini che ognuno ma ha dato e portato qualcosa e quindi la mia crescita è grazie a quegli anni teatrali ma anche quelli scolastici, perché anche a scuola ho avuto degli insegnanti umanisti, persone meravigliose. E il mio rapporto l’ho sempre cucito con queste note verso la vita e quindi mi sento un fortunato. E in quegli anni, dove facevo serenamente il mio lavoro per costruire, ricordo una Roma enorme, una metropoli, una città che ti può apparire meravigliosa o terribile, a seconda dei momenti, soprattutto per chi, come me, veniva dalla provincia. Io, come ti dicevo, venivo da Catania verso gli anni ’70, grosso modo. E questo sorriso che provavo dovunque, quest’attenzione affettuosa nel primo momento, nel primo passaggio importante, appunto con il pubblico, con la platea a 10 centimetri, questa affettuosità trasteverina, romanesca mi hanno spinto sempre di più a costruire serenamente senza le ansie tipiche di chi vuole tutto e subito. Questo è un mestiere, il mio, dove fino a 105 anni si impara sempre qualcosa di nuovo.

C’è un angolino di Roma a cui sei affezionato, Leo?

Diciamo i percorsi abitativi, anzi “pensionistici”, perché stavo sempre nelle pensioncine e quelli sono stati degli angoli dove c’era gente e quindi facevo riferimento sicuramente a quella fase mia di nascita. Io sono nato a Catania, in un  quartiere semplice e povero. Mio padre era operaio e quindi c’era un rapporto molto umano con i vicini di casa e persino un rapporto alimentare, appunto con lo scambio dello zucchero e della farina, un rapporto molto umano, insomma. Oggi abito, frequento e sono legato a zone dove c’è vita, dove c’è popolo e quindi a quartieri come Monti, a via Panisperna, via del Boschetto, via degli Zingari, ecc… a quartieri popolari, ma con flussi importanti, positivi dall’animo umano. Ho abitato anche in un’altra zona trasteverina, a Porta Portese, per un altro periodo di tempo e anche lì ho costruito un buon rapporto, accanto a gente semplice, che lavora. Ecco perché mi piace il rapporto di zone abitative, dove tu scendi da casa, compri il giornale, ti siedi al tavolino, ti prendo il tuo caffè e quindi mi porto dietro una radice catanese, senz’altro meridionale e senz’altro “brancaniana”, perché fu Brancati a descrivere meravigliosamente bene questa filosofia del tavolino e del caffè e del parlottio, dello scambiarsi delle chiacchiere. Quindi questi tempi sono dentro di me e sono molto forti. Poi c’è stato un altro luogo, molto centrale di Roma, appunto in via del Tritone, via Due Macelli, piazza di Spagna, Trinità dei Monti, dove per tanti anni, sia teatralmente che televisivamente, lavoravo al Salone Margherita, ossia al Bagaglino. Ripeto, aldilà  di queste indicazioni di queste zone, sono legato a tutto questo percorso della mia vita. Oggi, per esempio, sto in un’altra zona di Roma, fantastica, bellissima, che è San Giovanni, quartiere notissimo, dove per me, la bellezza sono i venerdì e i sabati, quando la mattina scendo da casa, compero il giornale, prendo il caffè e vado a fare la spesa. Ecco, questo rapporto con l’ortofrutticolo, con l’edicolante, il barista e vedere le famiglie che escono e vanno a fare la spesa, i nonni con i loro nipotini che il sabato vanno a passeggio insieme, è una visione bellissima, gente sana, gente che lavora, gente senza occlusione ed esclusioni di sorta. Io personalmente non  potrei mai abitare in un quartiere tipo ai Parioli, bel quartiere, non c’è dubbio, ma che popolato  di giorno perché è pieno di uffici, ma di notte assolutamente isolato e vuoto. Sembra proprio una zona fantasma. Non parliamo poi della zona dell’Eur, altro quartiere bellissimo, per carità, che ha delle abitazioni che sono dei paradisi, ma che però la sera diventano una specie di prigioni dorate, perché ti chiudi dentro a chiave, cancelli, lucchetti, allarmi, ecc… Non fanno per me questo tipo di abitazione.  

Ami la cucina romana, Leo?

L’adoro. Ho un ottimo rapporto con la cucina romana. Io poi credo di avere una buona chiave, nel senso che io non sono uno che cerca il ristorante legato alla mia terra. Per motivi di lavoro, pensa che lo faccio da ormai 42 anni, ogni volta che mi sposto, cerco sempre di mangiare i piatti del luogo, della regione, perché anche nei piatti locali c’è la storia di quella regione, di quella nazione. E’ un modo anche per entrare in sintonia. Non mi sono mai chiuso dentro le cose mie che sono importantissime, per carità, per la sua storia, per tutto, ma preferisco averle nel luogo dove si fanno, con un uso preciso, con un sapore preciso. Perché poi sono i piatti, non so, bolognesi, mangiati a Roma o siciliani, sono sempre tradizioni e manca sempre qualcosa. Non sono come quelli mangiati a Bologna o a Palermo. E’ come nei libri, Sakespeare, tradotto in italiano. Le traduzioni, per quanto meravigliosamente siano fatte, non hanno mai quel fascino, manca sempre qualcosa.

Esiste una Roma da buttare?

Beh! Gianfranco, io non mi limiterei ad una Roma da buttare, credo che forse questa domanda un po’ provocatoria sia legata al movimento del globo terracqueo degli  ultimi 20 anni. Il linguaggio è cambiato, il globale è abbassato, ha portato tutti a chiudersi e a vivere la realtà soltanto fra le quattro mura di casa, senza neanche uscire, senza neanche la voglia di aprire le finestre per guardare cosa c’è fuori. Bisogna rapportarsi. Oggi c’è una realtà molto importante, che è il villaggio globale e sicuramente una metropoli come Roma, come tutte le metropoli è sempre un villaggio globale e allora bisogna fare i conti con una serie di piacevolezze ma anche con una serie di problemi che vengono fuori. Credo che alla base di questo discorso, non esista una Roma da buttare. Io non butto mai via niente, nella vita, perché magari c’è una cosa che non capisco e la metto da parte e il tempo quella cosa me la fa valorizzare o comunque dare il giusto valore. Non bisogna mai tagliare con l’accetta e soprattutto non bisogna mai dimenticare che l’Italia, storicamente, è stato un paese emigrante, quindi verso questo movimento che tutto il mondo che in questo momento ha, l’Europa, principalmente, con la caduta del muro di Berlino, dobbiamo fare i conti con la realtà. Non possiamo metterci il prosciutto sugli occhi, ma di colpo non possiamo diventare delle persone che si chiudono a riccio, guardando con sospetto chi lascia la propria terra e chiunque lascia la propria terra lascia sempre qualcosa per un mondo migliore. La chiave è soltanto quella ed è inutile, secondo me, dentro, mettere quelle note di divisione tipo quello è il paese dei ladri, quello è il paese dei truffatori e così via. C’è sempre la mela bacata, anche da noi quando eravamo emigranti, non so, in terre americane, tanta gente sana e meravigliosa cercava un mondo migliore di noi, dei nostri nonni, dei nostri avi, in paesi stranieri. Lavoratori sani ed onesti e poi c’erano quelli più disperati che magari venivano acchiappati da quel nucleo di minoranza dove, in paesi come l’America, venivano coinvolti con la mafia e stavano al gioco. Questo è un gioco blando, molto basso credo che non bisogna mai fare. Bisogna, invece, stare molto attenti e quindi le cose da buttare, tanto per ritornare al tema della domanda, bisogna avere rispetto di qualsiasi cosa che abbiamo vicino a noi. La parola “buttare” è un termine sbagliato, mettiamolo nel posto giusto, nella condizione giusta, perché in questo nostro paese, dove noi per primi nel mondo, storicamente, abbiamo trovato accoglienza e futuri migliori, dobbiamo avere molto rispetto per la disperazione di molte persone che lasciano la loro terra per un futuro e un mondo migliore e il mondo migliore spesse volte è una spiaggia nuda, fatta di rocce, fatta di sabbia.

Qual è stata la tua più gran soddisfazione artistica?

Ma, sai, in 42 anni di attività, toccando tutti i generi di spettacolo, avendoli rifatti e facendoli a tutt’oggi, passando dal varietà televisivo, a Nuovo Cinema Paradiso, a Scugnizzi, a Vajont, a Cuore, tanto per buttare lì delle cose, ognuno mi ha dato una soddisfazione, ognuno mi ha insegnato delle cose, ognuno mi ha portato qualcosa e in ognuno forse ho dato qualcosa anch’io. E’ come una mamma con tanti figli e a cui gli si chiede a quale si sente più attaccata. Non lo dirà mai.

La cosa più cattiva che hanno scritto o detto su di te?

Da questo punto di vista ho imparato la tolleranza, questo grazie anche a quel periodo spugnoso dell’adolescenza con persone che mi hanno aiutato. Ero talmente piccolo quando ho iniziato, cioè a 14 anni, che nella compagnia professionale mi chiamavano “bullottino”, perché ero proprio un ragazzino. Andavo accompagnato sempre da queste persone più grandi di me, appunto perché ero un ragazzino e non erano persone gentili. Ognuno però mi ha dato qualcosa. Ho sempre notato molto affetto nei miei riguardi e molta stima. Quindi cose cattive, no! Poi, sai, Gianfranco, chi scrive cose cattive non è mai costruttivo. Si può criticare, cercando però di costruire.  La cattiveria è soltanto una blandezza di chi è vuoto e di chi non scrive bene. Non ho mai avuto delle cose cattive, ma d’affetto si, tante! Tipo: "Ma come mai un attore così bravo, fa questo, ecc… ". Ma io mi definisco come medico generico, non esiste un medico generico che cura soltanto i raffreddori, il medico generico sa curare tutto, forse non è specializzato, ma se individua qualche malessere particolare sicuramente manda il paziente dallo specialista giusto, di quel settore. Quindi sono il medico generico, il mio mestiere è l’attore che è colui che offre delle interpretazioni dei personaggi, delle loro vite. L’ho fatto per tanti anni, l’ho fatto abbondantemente in tantissimi lavori. Forse posso aggiungere che nessuno prepara torte per farle venire male, se ne accorge soltanto quando le sforna, se manca un po’ di lievito, o di sale o di zucchero. Bisogna credere in ciò che si fa, bisogna saper dare, il mio mestiere è basato, credo, su questo ed io ho il piacere sempre di darmi al pubblico in ciò che faccio. E’ da questo punto di vista che oggi posso dire che il pubblico ama l’attore, questo volersi offrire in cose sempre diverse, questo fa la freschezza dell’interprete, anziché ripetersi indefessamente solo e soltanto su quella determinata cosa. Cose cattive, no! No! Per affetto si! Hanno sempre sentito affetto e stima per me. Qualche volta si, c’è stata la cattiveria gratuita, ma quello va da se, come dicevo prima.

Il complimento più bello che hai ricevuto e da chi?

Tantissimi complimenti, sempre, per mia fortuna, chiaramente. Ma forse è un mio modo di esserlo. Probabilmente il pubblico avverte una pulizia di sentimenti, non ho mai barattato nulla, non ho mai ambiguizzato niente e non ho mai fatto passare una cosa per un’altra. Sono sempre autentico, sia nelle interpretazioni dei personaggi, sia qualche volta in chiacchiere a un’intervista che m’è capitato di fare e proprio sempre e assolutamente sereno e sincero. Il complimento più bello probabilmente viene da quelle persone che per le strade mi fermano anche soltanto per un autografo e questo mi è capitato diverse volte. C'è anche chi mi ringrazia  perché ho fatto ridere o piangere, conforme il film o il ruolo, mio padre, mia madre e mia sorella, ecc... che oggi non ci sono più, quindi ogni volta che mi vedono, do loro la possibilità di questo momento di ricordo, di questo momento di vicinanza sorridente, ai loro cari. Ecco, questo credo sia il più bel complimento che si possa ricevere se sei l’emblema di qualcosa che appartiene nel cuore delle persone.

Quando non lavori quali sono i tuoi hobby?

Molto normale. Io il mio lavoro lo faccio molto regolare, non mi chiudo in torri di avorio, non ho la piscina a forma di cuore e piena di champagne. E’ un lavoro come un altro e che faccio con tutto il cuore, perché lo amo anche se è pieno di sacrifici. Fanno male i giovani a pensare che qualsiasi lavoro, e quindi anche il mio, si facciano con semplicità, basta farsi vedere. Ogni lavoro per farlo bene, bisogna studiare, crescere ed essere attenti ed essere coscienti sensibilmente di se e di quel lavoro che si va ad intraprendere. Non è vero che studiare fa male. Studiare fa molto bene. Studiando si conosce il mondo. Si conosce l’avidità ma soprattutto si è puliti e sereni di fronte al proprio interlocutore. Forse non ho risposto alla domanda che mi hai fatto?

Ho chiesto quali erano i tuoi hobby?

Amo viaggiare, quando posso, mi piace sapere e conoscere. Se ho del tempo, faccio dei viaggi lunghi in paesi particolari. Mi piace girare, guardare, osservare altri paesi, altre culture. Mi piace anche la fotografia, ho la mia bella macchinetta che mi porto sempre appresso e scatto, scatto, scatto. Cerco di fermare, in un immagine, in quel dato momento, dove c’è una certa piacevolezza che vedo, non so, quella faccia, quel sorriso, quel cornicione, quel fiume, quei monti. Sono tutti momenti che porto sempre con me.

Com’è il tuo rapporto con la fede?

Sicuramente ti posso dire che sono una persona che ogni tanto ha bisogno di fermarsi dentro a una Chiesa, chiesa in quanto luogo silenzioso, luogo di fede. Prego, mi sento di farlo e lo faccio. So che c’è qualcosa oltre noi. Ogni tanto questo “qualcosa” cerco di vederlo, di capirlo e di domandarmi e di capire, di agganciare qualcosa in me con un’altra persona. Lo faccio, sono battezzato e quindi sono cristiano, ma con una serie di pesanti e lunghi interrogativi. Ma ogni tanto ho la necessità di pregare.

Cosa pensi della battaglia contro il fumo?

Io sono un fumatore e rispetto e ho sempre rispettato chi la pensa diversamente da me e chi ovviamente non fuma e ho sempre rispettato questa chiave, prima di questi divieti cioè quando si poteva fumare liberamente dappertutto. Anche a tavola per non dare fastidio a qualcuno, mi alzavo e uscivo fuori. Non sono mai stato un prevaricatore, però credo che l’impostazione generale di questa legge non sia per educare, è una legge solo per proibire. Personalmente le proibizioni non hanno mai dato frutto, non hanno mai costruito delle cose. Credo che questo, bisognava farlo scolasticamente, come scolasticamente bisognava fare le materie sul sesso. Il sesso fa parte della vita, della natura e quindi è giusto far capire e spiegare e se si spiega ai bambini in maniera appropriata, non solo crescono meglio, ma sanno affrontarlo meglio dopo. Detto questo vado a capo, credo che attorno trovo delle ambiguità, che è una parola che forse vuol dire poco, ma si fanno delle campagne sul fumo in questo modo, così proibizionista e diseducativo. Io per strada non vedo delle campagne con scritto: “Non comprate le automobili!” perché se no la mia domanda è: “Perché fermare il traffico?” E’ giusto, a me dovete dire: “Non fumare” va bene perfetto! Non sarò d’accordo, ma è la legge. Allora perché fermate le città, per via delle polveri sottili. Vuol dire allora che c’è qualcosa di peggio e qualcosa di peggio sono le automobili e le automobili sono delle Multinazionali che sono tante a differenza di quelle del fumo che è una. E allora forse queste multinazionali sono intoccabili perché aiutano sicuramente a fornire armi per le guerre. E allora io mi domando: “Come mai, anche scolasticamente, non fanno anche una campagna contro l’inquinamento acustico? Come mai non fanno una campagna contro l’inquinamento alimentare?” A proposito di Roma, questa Roma meravigliosa con trattorie all’aperto, nei cortili, nelle stradine del centro storico. Si mangia all’aperto con questa magia che è questa scenografia naturale e, sai, sono talmente tante queste automobili che questi tavolini sono messi in queste stradine strette, e li passano le automobili a mezzo metro e tu mangi i scarichi delle auto. E qui, come la mettiamo? Ti passa il tubo di scappamento sul piatto direttamente. E allora, perché io devo essere, tra virgolette, preso in giro, da una campagna denigratoria che poi scatta una chiave psicologica sulla gente dove vedono tutto attorno chi ha una sigaretta in bocca. Quindi io devo dire che rispetto una costrizione più sana più educativa verso certe cose che possono migliorare la società e la salute dei cittadini. Non ho mai creduto al proibizionismo in questa chiave. Non è educativo e non porta a nulla.  

Hai un sogno nel cassetto?

Io oggi ho 59 anni, fatti il 9 gennaio e la vita con me è stata prodiga e mi reputo fortunato. Forse un sogno nel cassetto è di avere sempre la salute e la serenità e che queste due  cose insieme mi consentano di fare meravigliose cose e di prodursi al meglio. Il resto va, viene, torna e romane. I sogni nel cassetto poi, non bisogna vederli come sogno irrealizzabili, ma vederli come progetti. Quindi avere sempre un progetto per la vita. Siamo attraversati anche da grandi interrogativi. Credo che due note che sono accadute, da una parte l’11 settembre e dall’altra l’avvento dello Tsunami, credo che abbiano messo il cittadino nel mondo, ad interrogarsi, a formarsi, a dare un valore alla propria esistenza. Questi due fatti ci hanno fatto riflettere e anche ad avvicinarci alla fede e ad un più stabile equilibrio.

A chi vorresti dire “grazie”?

Io per mia scelta nella vita e per educazione famigliare, non sono stato e non sono un colletto bianco, né una testa d’uovo, né un portatore di valige. Però sicuramente devo dire grazie a quelle persone che hanno creduto in me e soprattutto a mio padre e a  mia madre.