Paolo Graldi (giornalista)        Roma 15.01.2016

                    Intervista di Gianfranco Gramola

Un maestro di giornalismo, che con passione, dedizione e umiltà ha toccato temi scottanti come il terrorismo, la mafia, la camorra. Si è occupato anche di sicurezza e cronaca nera. “Il  Giubileo? Si immaginava che accorressero le masse e invece le diverse categorie stanno dicendo che si va verso un flop”

 

Paolo Graldi, nato a Bologna il 27 maggio 1942, dopo il giovanissimo esordio su alcune testate locali, si è trasferito a Roma per lavorare prima con “Paese Sera”, poi con il “Corriere della Sera” di cui è stato capo della redazione romana. Vice direttore con Sergio Zavoli al Mattino di Napoli, nell’ottobre 1994 è stato nominato direttore dalla Fondazione Banco di Napoli, rimanendo al timone del quotidiano di via Chiatamone fino al 2001, quando l’editore Franco Gaetano Caltagirone gli ha affidato la direzione de “Il Messaggero” per tre anni, per poi nominarlo direttore editoriale. Attualmente è editorialista del gruppo, scrivendo per “Il Messaggero”, “Il Mattino” e “Il Gazzettino di Venezia”. Per la Tv ha collaborato a quasi tutte le trasmissioni di Enzo Biagi: caporedattore con Sergio Zavoli a “La notte della Repubblica” e “Viaggio intorno all’uomo”, ha firmato per Raiuno l’inchiesta in venti puntate “Io e il fumo”, “Io e il telefono”, “Io e il Cibo” e numerose inchieste per “Scatola aperta”. Da alcuni anni guida la Scuola Superiore di Giornalismo presso la Università Internazionale Luiss di Roma e il prestigioso Premio Ischia Internazionale di Giornalismo. Paolo Graldi ha vinto, tra gli altri, il Premio Scanno, il Premio Città di Roma, il Premio Città di Milano e il Premio giornalistico Gargano “Vincenzo Afferrante”.

Ha scritto (sul Messaggero):

- Non se ne può più di impastare calcio e violenza ultrà, di mischiare il tifo sano e perfino allegro con lo squadrismo programmato, le fazioni che si preparano a fronteggiarsi, quasi sempre a viso coperto, spesso in agguati vigliacchi e solitari.

- Una metropoli per sua natura, nasconde sempre insidie difficilmente prevedibili in ogni sua latitudine.

- La serie tv sui casi freddi, poi ritrasmessa in Italia, ha forse contribuito non poco a rafforzare l’idea che la parola fine, nella ricerca dei colpevoli di delitti, non va mai scritta. 

- Tolleranza? E’ la politica, la volontà politica che deve entrare in campo, agire con forza di deterrenza e di verifica preventiva, fuori da ogni speculazione di qualsiasi segno sia.

- La sicurezza è un prodotto e dunque costa. E’ un prezzo, fra i tanti, che va pagato. E questo volentieri.

- E Roma sarebbe la metropoli che aspira ai giochi olimpici del 2024! Sarebbe la città che tra qualche mese accoglierà milioni di pellegrini per l’improvviso Giubileo voluto  da papa Francesco? Siamo seri, per favore non raccontiamoci balle.

Curiosità

- Fu il primo a intervistare Alì Agca e, sul Corriere della Sera Tommaso Buscetta.

Intervista

Com’è nata la passione per il giornalismo, chi gliel’ha trasmessa?

A dire la verità io volevo fare l’attore. Nel teatro universitario stavamo lavorando e facevamo tante cose e anche tanti colleghi di studi volevano fare altrettanto. Ma  bisognava mantenersi agli studi allora trovai il modo di collaborare a Paese Sera da Bologna e da lì è nata la passione. E’ nata la passione di essere sui fatti, osservatore ma anche in qualche modo protagonista perché il cronista se sta alla giusta distanza dai fatti e li rispetta, è un protagonista dei fatti stessi.

I suoi genitori che futuro speravano per lei?

Mio padre che era vedovo voleva che noi facessimo, io l’avvocato o il medico,mia sorella gemella l’insegnante e l’ha fatto benissimo per tanti anni di greco, italiano e latino al liceo e si è sposata poi fra l’altro con un uomo che insegnava matematica e fisica, quindi praticamente in famiglia c’era tutto il programma scolastico. Da piccoli si sognano tante cose, anch’io volevo fare il medico da bambino. Mi piaceva molto l’idea di soccorrere gli altri e quando eravamo in colonia facevamo le tende con la croce rossa. Tutto inventato, sogni piccoli di ragazzi che non erano proprio quelli degli scout ma assomigliavano …  il soccorso l’essere presenti che coincide con una cosa che mi ha accompagnato nella mia vita professionale, cioè il senso della giustizia. La giustizia è un oggetto molto delicato, molto importante che va respirato, seguito, accudito continuamente con grande cura e rispetto.

Lei ha scritto sempre quello che voleva o è stato anche censurato?

Censure non mi ricordo di averne avute. Nella mia carriera mi sono occupato di terrorismo, di mafia, di camorra, ho diretto due giornali, “Il Messaggero” e “Il Mattino”, due giornali molto importanti, molto impegnativi, dentro due realtà, Napoli e Roma, molto complesse. E’ chiaro che esiste una cosa che Biagi rappresentava molto bene, che era la misura. La parola misura nel giornalismo è qualcosa che deve essere il vero “trait d’union” tra chi scrive e chi legge e al centro in mezzo, quella lineetta è rappresentata dai fatti che siamo incaricati. Noi abbiamo una grande responsabilità, come giornalisti nel rappresentare i fatti e dobbiamo farlo non solo attraverso le regole deontologiche che dobbiamo utilizzare e che sono il nostro binario, ma dobbiamo anche farlo con una coscienza personale con un approccio particolare, individuale ai fatti. Censure no, opportunità, aggiustamenti, si. Ci sono cose che si possono dire in tanti modi, la stessa cosa un bravo giornalista deve saper scegliere quella che dice tutto, ma che è più adatta a quella congiuntura culturale, politica. Non mi sento di dire di essere mai stato censurato. Ho lavorato vent’anni al “Corriere della Sera”, certo esiste sempre dibattito tra come dare una notizia, ci sono tanti modi per farlo e dire quello giusto è come lanciare un dardo e fare centro. Provate voi a tirare il dardo e a fare tutte le volte centro. Certe volte si va sopra, certe volte si va sotto però non si può parlare di censura, ma è l’adattamento a quello che dobbiamo raccontare.   

Secondo lei è meglio dirigere un giornale o essere diretti?

I giornalisti si dividono in due categorie, quelli che lo scrivono e quelli che lo vorrebbero dirigere. Tutti quelli che lo scrivono vorrebbero anche dirigerlo, il problema è che la direzione di un giornale deve capitare a una sola persona. Questa persona viene investita della responsabilità di essere solista nel coro, cioè un direttore d’orchestra capace di amalgamare, di tenere insieme tante voci, di rispettarle e però anche di farle confluire nello stesso spartito. Questo è il lavoro bello, appassionante, straordinariamente coinvolgente del direttore di un giornale. Io ho fatto le due cose, ho fatto per tanti, tanti anni il cronista anche di marciapiede, il cronista giudiziario, ho passato notti, giorni a seguire i processi e poi ho avuto l’opportunità di dirigere a lungo due grandi giornali, e ho fatto anche quella esperienza. Questo mestiere mi ha dato molto di più di quel che meritassi e molto di più di quel che mi aspettassi, quindi sono felice in più, continuo a scrivere per  il giornale del gruppo Caltagirone, “Il Messaggero”, “Il Mattino”, “Il Gazzettino”, quindi tengo la testa sveglia.

Un consiglio a un giovane che vuole avvicinarsi al giornalismo?

Ho incontrato tanti giovani nella mia carriera che mi hanno chiesto di intraprendere questa carriera appunto. Moltissimi avevano un’idea sbagliata, forviante, del giornalismo. Pensavano a Yves Montand che scende dall’aereo da inviato ad Hanoi, dopo aver intervistato Ho Chi Min. Un’idea romantica, un’idea che può aver riguardato alcuni di noi, ma pochissimi, e comunque con doti davvero fuori dal comune. Il lavoro del giornalista è un lavoro artigianale, è un lavoro che si fa molto al tavolo con pazienza, con passione ma anche con dedizione e con umiltà. L’umiltà è una delle doti principali del giornalista perché se l’approccio non è umile, la possibilità di raccontare qualcosa di deformato è molto alta e quindi bisogna scoprire se davvero è una passione non immaginata, non mediata attraverso quello che si è letto o si è visto, ma quello che è oggi. Un giornalista ha un tavolo, ha un computer, ha un desk sul quale deve fare metà del suo lavoro. Non voglio dire che sia un impiegato, ma certamente non è il signore che va, vede, fa, scrive, ecc … quello riguarda il 5% delle persone che sono chiamate a realizzare un giornale o una trasmissione, un talk show o un telegiornale. Una percentuale minima è quella degli inviati, gli altri sono la grande macchina che manda avanti l’indispensabile e che ha bisogno di grandi professionalità, però bisogna che chi si avvicina o immagina di fare questa professione, preferisco dire questo mestiere, ne abbia una visione chiara, cioè questo è un mestiere che è fatto di sacrifici, che è fatto di dedizione, che è fatto di umiltà e dove la parte espositiva della propria firma, della propria immagine è spesso molto ridotta, anzi nella maggior parte dei casi non c’è proprio.

Lei non è romano, quando è venuto a Roma e come ricorda l’impatto?

Io sono venuto Roma quarant’anni fa, forse cinquant’anni fa, a Paese Sera. Venivo da Bologna, pagavo 40.000 lire di affitto in una stanza al centro di Roma, dove per aprire la porta dovevo spostare il letto e poi la richiudevo e il letto si riposizionava, con la doccia che funzionava a singhiozzo. Era una Roma comunque molto bella, molto affascinante, la quale c’erano infinite discussione per strada perché il clima ci consentiva di riunirci, di mangiare una pizza o fagioli, cipolle e tonno, però ricordo che si parlava tanto, si ragionare e si cercare di capire. Certo naturalmente è romantico questo ricordo. Roma, come diceva Federico Fellini, è una grande mignotta che avvolge tutto, prende tutto. Io venivo da una città con degli studi universitari come Bologna, certo non la provincia del sud, arsa e riarsa dal sole, venivo da una grande città con una grande storia, con grandi cervelli che ne animavano l’attività culturale e da quel punto di vista ero non attrezzato ma almeno vaccinato. Mi ricordo che la prima cosa che mi dissero a Paese Sera è: “Ricordati che non sarai mai assunto”. Non era vero, come non è mai stato vero in tutta la mia carriera, nel senso che nei giornali almeno fino a un certo punto si è stati assunti per cooptazione, cioè si aveva libero accesso ai giornali, cosa non più ne permessa ne consentita e va bene così. Poi però lungo la via c’è chi diceva “pensavo a un'altra cosa, immaginavo qualcos’altro” e quindi chi faceva poi l’avvocato, chi il medico, chi altre attività e quelli che resistevano della mia levata come Bruno Lancellotti, Carlucci e tanti altri sono poi diventati giornalisti importanti in questo Paese.

Le sue abitazioni romane?

Sono sempre stato volentieri in centro, mi piaceva molto a Trastevere, abitavo in via del Moro che era una via fantastica perché collegava piazza Trilussa a piazza Santa Maria in Trastevere, due luoghi assolutamente celebri. Me ne sono andato senza alcun rimpianto. Oggi è una casbah e non ci metterei più piede, ma allora era bellissimo, si scendeva la sera, dopo il lavoro, ristoranti di tutti i tipi, una pizza, una braciola, qualsiasi cosa insomma, ma c’era un’atmosfera molto paesana. Oggi c’è  l’invasione dei vucumprà, il quartiere è stato espropriato dai suoi autentici abitanti, i quali hanno ceduto i loro locali, le loro case, i loro appartamenti, a chi aveva più soldi e comprava i locali. Quindi si è totalmente trasformato travolgendo la sua originaria identità.

Le sue idee per una Roma migliore quali sono?

Bella domanda …  ne hai una di riserva? Abbiamo toccato il fondo a Roma, davvero lo stiamo toccando, raschiando. I problemi veri non sono solo i problemi di un’amministrazione che non funziona o bla bla bla, ma sono anche i romani, il parcheggio in seconda fila, in terza fila, l’immondizia, e il modo di essere e di stare a Roma è quindi un problema culturale anche. E’ un modo diverso di percepire e concepire la città come molto spesso si ritrova al nord come un dato naturale del cittadino che porta la spazzatura e la versa nel bidone giusto, che trova il parcheggio. Poi naturalmente come tante capitali Roma è il ricettacolo, la calamita di tutto, cioè del buono e del non buono. Quindi i problemi di Roma anche dal punto di vista più forte che è quello della sanità per esempio deve raccogliere e assorbire una grandissima quantità di persone malate o bisognose di cure che viene dal sud, cioè non provvede solo a sé stessa, provvede a un territorio infinitamente più grande. Ci vogliono delle regole perché questo abbassamento degli anticorpi, della capacità di reagire molto forte ha portato a mafia capitale, ha portato al disastro capitolino della giunta Marino, al disastro ancora peggiore di quella precedente diretta da Alemanno. Adesso siamo nella fase della ricostruzione, ma il giubileo che doveva rappresentare un’opportunità grandissima per la città, su 130 progetti e programmi immaginati  ne ha approvati 31 e ci sono solo 21 cantieri aperti. Facciamo ridere.

A proposito del Giubileo, cosa ne pensa di Papa Francesco?  

E’ un grande Papa. A parte che i Papi per definizione li giudica la storia, non la cronaca, quindi sarebbe azzardato da parte di chiunque, tanto più da parte mia, dare dei giudizi, nel senso che il respiro di un Pontefice come è successo sempre nella storia appunto lo misurano i tempi lunghi, vediamo che cosa la sua misericordia  produrrà. L’idea del giubileo che è stata praticamente in qualche modo imposta alla città, perché non era neppure avvertita di questa idea, ha prodotto degli effetti che ancora vanno valutati, per esempio si immaginava che accorressero le masse e invece le diverse categorie stanno dicendo che si va verso un flop, ma spaventoso nel quale forse, anzi quasi certamente non è estraneo il clima, il timore di attentati terroristici.  Parigi, Londra, Giacarta, la cronaca dell’attacco terrorista dell’Islam sanguinario non aiuta questo aspetto e quindi si registrano cancellazioni nelle prenotazioni e poi c’è obiettivamente nei fatti, lo si può constatare con mano anche il timore che prima o poi toccherà anche a Roma subire la ferita del terrorismo e questo ovviamente si ripercuote. Parlavo con un ristoratore che raccoglie sempre molto consenso, perché  rapporto qualità prezzo molto buono, tanti coperti, ecc … mi diceva che se succede un attentato i ristoratori sono tutti rovinati, perché la risposta sarà quella di rinchiudersi in casa. Credo che invece i romani per primi ma anche gli altri, i pellegrini che vogliono venire e dovrebbero non accettare il ricatto della paura e fare una vita normale.